Friday, August 11, 2017

Elsa Morante, "L’isola di Arturo"

– e-book


Letto dal 16 giugno al 10 agosto 2017

Il mio voto:


Nessun uomo è un’isola, diceva, più di quattro secoli fa, John Donne, splendido nella sua certezza che siamo talmente tutti parti dell’umanità che anche quando la campana suona per annunciare la morte di qualcuno, non suona solo per lui, ma anche per noi.

Contradirebbe L’isola di Arturo, il piccolo romanzo di Elsa Morante, quest’idea? A prima vista, il suo maggior tema pare la solitudine. Arturo, l’io narrante si vede solo e orgoglioso come la stella della figura di Boote che porta il suo nome, come il leggendario re dell’antichità. Da sua madre, morta alla sua nascita, non tiene che una foto presa da un fotografo ambulante: “Figurina stinta, mediocre, e quasi larvale; ma adorazione fantastica di tutta la mia fanciullezza.” Suo padre, benché molto vivo, non è mai vicino a lui, visitatore talmente sporadico e disinteressato che diventa per il suo figlio una figura mitologica, intangibile, sacra.


L’isola stessa in cui cresce come un piccolo selvaggio ha un’aria oscura e ostile, avvolgendosi intorno a lui piuttosto minacciosamente che protettivamente. Così, Arturo cresce da solo, si educa da solo, portando nonostante in cuore un ideale maschile in suo padre assente e uno femmine in sua madre morta. Ma come tutto giovane ha bisogno non solo di modelli ma anche di limite e regole a rispettare e, in assenza a un guida dei genitori il ragazzo intelligente e autodidatta si crea da solo un “Codice della Verità Assoluta”, commoventemente influenzato delle sue letture disparate (i maiuscoli sono tutti suoi):

"I. L’AUTORITÀ DEL PADRE E SACRA!
II. LA VERA GRANDEZZA VIRILE CONSISTE NEL CORAGGIO DELL’AZIONE, NEL DISPREZZO DEL PERICOLO, E NEL VALORE MOSTRATO IN COMBATTIMENTO.
III. LA PEGGIOR BASSEZZA È IL TRADIMENTO. SE POI SI TRADISCE IL PROPRIO PADRE O IL PROPRIO CAPO, O UN AMICO ECC., SI ARRIVA ALL’INFIMO DELLA VILTÀ!
IV. NESSUN CONCITTADINO VIVENTE DELL’ISOLA DI PROCIDA È DEGNO DI WILHELM GERACE E DI SUO FIGLIO ARTURO. PER UN GERACE DAR CONFIDENZA A UN CONCITTADINO SIGNIFICHEREBBE DEGRADARSI.
V. NESSUN AFFETTO NELLA VITA UGUAGLIA QUELLO DELLA MADRE.
VI. LE PROVE PIÙ EVIDENTI E TUTTE LE ESPERIENZE UMANE DIMOSTREREBBERO CHE DIO NON ESISTE."

Ovviamente, questo piccolo gioiello romanzesco è un bildungsroman, seguendo dunque processo di maturità di Arturo, processo ne più ne meno doloroso di altri maturazioni, sia nella vita reale oppure letteraria, in cui le sue certezze assolute saranno messi in dubbio e alcune crolleranno per sempre.  

Come ogni giovane, lui dovrà affrontare soprattutto due prove difficili: la separazione della famiglia e il tormento del primo amore. L’amore che Arturo prova per la sua matrigna, solo due anni più grande di lui, finisce quasi nello stesso tempo in cui, rendendosi conto che il suo dio ha piedi d’argille, l’ammirazione che provava per suo padre si trasforma in delusione:

"Può darsi, in coscienza, ch’io non abbia mai amato sul serio W. G. E in quanto a N., chi era, poi, questa famosissima donna? una povera napoletanella senza niente di speciale, come a Napoli ce ne sono tante! (…)
Da questa infinita distanza, adesso, ripenso a W. G. Me lo immagino, forse, più che mai invecchiato, imbruttito dalle rughe, coi capelli grigi. Che va e torna, solo, scombinato, adorando chi gli dice parodia. Non amato da nessuno — giacché perfino N., che pure non era bella, amava un altro... E vorrei fargli sapere: non importa, anche se sei vecchio. Per me, tu resterai sempre il più bello."

Così, superando le due prove, Arturo si separa non solo del suo passato, ma anche della sua solitudine, lasciando in dietro la sua isola per s’offrire, insieme a un suo primo amico (chi è, non a caso, anche il suo primo tata) al mondo, rimanendo magari fedele alla sua seconda verità assoluta, finché vede nella guerra il luogo ideale per testare il suo coraggio.


Pubblicato nell’anno 1957, questo secondo romanzo di Elsa Morante sembra un esempio puntuale del neorealismo, sia in termini di struttura e di stile. Lo prova la descrizione splendida, ricordando la scrittura di Balzac con il suo passaggio dal generale al particolare, delle isole “del nostro arcipelago” disseminate sul mare napoletano alla casa del narratore. Comunque, l’isola Procida con le sue strade senza sole, “chiuse fra muri antichi”, con le case vecchie “severe e tristi”, con uomini taciturni e scontrosi, infausti, ostili ai forestieri, con donne che portano dei vestiti lunghi e un scialle sulla testa e che considerano un peccato non solo bagnarsi nel mare ma anche vedere altri farlo, isola dominata del castello-penitenziario (“uno dei più vasti, credo, di tutta la nazione”), sembra un luogo afoso, ma allo stesso tempo seducente, come la Foresta Proibita delle fiabe; il realismo sembra dunque cedere il passo, poco a poco, alla magia.

Ci sono anche altri elementi che fanno discretamente il passaggio dal neo-realismo al neo-modernismo, come per esempio l’io narratore che sostituisce il narratore onnisciente, e un certo dubbio sulla credibilità dello stesso narratore, i cui ricordi sono sfocati dal tempo:

"A distanza di tanto tempo, adesso io vado tentando di capire i sentimenti che, in quei giorni, cominciavano ad accavallarsi stranamente nel mio cuore; ma tuttora mi trovo incapace di distinguere le loro forme, che si mischiavano in disordine dentro di me, e non erano illuminate da nessun pensiero."

In fine, l’immagine finale, dell’isola che sparisce nel largo del mare, e solo apparentemente simmetrica, perché non esista veramente un passaggio inverso dal particolare al generale, solo l’immensità dell’acqua che rimpiazza, entrambi per gli occhi e per il cuore di Arturo, l’isola Procida.

"Come fui sul sedile accanto a Silvestro, nascosi il volto sul braccio, contro lo schienale. E dissi a Silvestro:
— Senti. Non mi va di vedere Procida mentre s’allontana, e si confonde, diventa come una cosa grigia... Preferisco fingere che non sia esistita. Perciò, fino al momento che non se ne vede più niente, sarà meglio ch’io non guardi là. Tu avvisami, a quel momento.
E rimasi col viso sul braccio, quasi in un malore senza nessun pensiero, finché Silvestro mi scosse con delicatezza, e mi disse:
— Arturo, su, puoi svegliarti.
Intorno alla nostra nave, la marina era tutta uniforme, sconfinata come un oceano. L’isola non si vedeva più."


Con quest’immagine finisce il mio primo incontro con la Morante, che non sarà mica l’ultimo, poiché la sua forza narrativa, la sua struttura epica solida, il suo stile limpido, di un’ingannevole semplicità, mi hanno rubato il cuore. 

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